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Botti da orbi: Rapsodia in Rum, Appleton “Hearts Collection”

Aggiornamento: 12 gen 2021


Chi indegnamente detiene questo spazietto, non è assolutamente un esperto di rum. Non lo è di nulla se non forse di bandiere e capitali del mondo – su quelle se la cava -, ma di rum se possibile ne capisce ancor meno che di whisky. Però, dato che è curioso come uno scimpanzè abbonato a Focus, ogni tanto non si trattiene e prova a tuffarsi carpiato nel mare burrascoso del distillato di canna per vedere se riesce a non annegare nella miriade spesso sregolata di sensazioni e suggestioni.


Come già capitato in passato, spesso il biglietto liquido di sola andata per i Caraibi lo stacca Velier, l’importatore e distributore genovese che fa capo a quel genio anarchico e nomade di Luca Gargano. Il quale – dopo aver dato addirittura il nome a una nuova classificazione dei rum – da anni collabora con il gotha mondiale (di cui a sua volta fa parte a buon diritto), contribuendo ad innovare il panorama del “pure single rum”.


L’ultima invenzione si chiama “Hearts collection” ed è una serie talmente unica da dover essere raccontata. Perché per la prima volta Appleton Estate, colosso giamaicano di proprietà del gruppo Campari, immette sul mercato dei single vintage, single mark e single pot still rum ufficiali. La quasi assoluta totalità dei rum giamaicani infatti è costituita da blend di diversi mark (le “ricette”, semplificando) e di spirito distillato sia in alambicchi discontinui di rame, sia in alambicchi continui a colonna. Ecco perché questa triade di rum “puri” è davvero speciale, perfetta per rilanciare il marchio e fare un salto di qualità per quella che lo stesso Luca definisce “la miglior distilleria del mondo”.


Come sia nata la collaborazione lo hanno spiegato Gargano e Joy Spence, da trent’anni ad Appleton e prima donna a diventare master distiller nel mondo del rum. Per realizzare quello che definisce “un vecchio sogno”, Joy ha selezionato 10 dei 200mila barili di proprietà di Appleton; Luca è volato in Giamaica e – separatamente – entrambi li hanno assaggiati tutti alla cieca. Ed entrambi hanno scelto esattamente gli stessi tre: poi uno dice che non crede nel destino… Di ognuno sono stati utilizzati 12 barili, per una tiratura di tremila bottiglie ciascuno (a proposito, prezzo fra i 200 e i 220 euro). Restava solo da scegliere un nome. E dato che Appleton si trova nel cuore della Giamaica, il pot still è il cuore della produzione e il cuore è simbolo della passione di Joy e Luca per il rum, la scelta non è stata difficile: “Hearts collection”.


La cosa straordinaria – oltre ai prodotti, invecchiati per 26, 25 e 21 anni sull’isola, con angel’s share tripla rispetto all’Europa – è il fatto che Luca, in tutto questo, non sia altro che un ispiratore. Niente business, Velier non c’entra: sono co-bottlings ufficiali nati da un’idea, come le auto firmate Pininfarina: “La realtà – spiega lui – è che mi piace valorizzare i diamanti dei Caraibi. Dopo Four Square e Hampden, perché non Appleton? Questi rum mostrano alcuni degli infiniti colori nella tavolozza della distilleria”. E il fatto che un quarto imbottigliamento sia già stato selezionato per il lancio del prossimo anno mette già di buon umore. Fine dello storione, che non è un pesce. Si passi all’assaggio: perdonerete eventuali imprecisioni, ma per chi scrive su whiskyfacile certi rum possono essere difficili da decifrare.


Appleton 1994, 26 yo (2020, OB, 60%) Il più anzianotto (congeneri totali 1184 g/100) lo assaggiamo per primo. Al naso si parte con un’arancia affumicata, poi una sventagliata di legno, caffé etiope e cannella. C’è anche una dimensione acida, tra prugna e chinotto. Ha bisogno di molto tempo per addomesticarsi un po’. Quando succede, escono volute di sigaro alla vaniglia da svenimento. Con acqua spuntano lime e canfora. Il palato è centrato su un legno affumicato, anche bacche di ginepro flambè, quasi. Di nuovo caffè etiope acidino, liquirizia pura, arancia amara e cioccolato fondente al 98%. Complesso, secco, con qualcosa di sandalo. Il finale è lungo e inizialmente amaro e astringente, ma col tempo si arrotonda e spunta un curioso tocco saporito. Se dicessimo jerky beef ci garrotereste? Infinito, mai banale, mai agevole. Alcuni fra i partecipanti alla presentazione ne lodavano la legnosità discreta, anche se senz’altro assai presente. A questo ABV e con questo invecchiamento impegnativo, non poteva essere altrimenti. Un’esperienza vera. 90/100.


Appleton 1995, 25 yo (2020, OB, 63%) Un anno di invecchiamento in meno, 3 gradi in più e anche più esteri: 1440 g/100. Alla prima snasata è subito amore: aromatico, con un che di floreale e suadente che fa pensare a certi venerabili cognac. Pesche al vino, toffee, più frutta rispetto al suo fratellone. Ancora arancia, ancora vaniglia. Con acqua emerge una nota di chinino. Si può affumicare l’acqua tonica? Naso splendido. In bocca è un’altra storia: molto asciutto e nervoso, resta secco e con una grande acidità, ma l’apporto del legno è meno robusto. Ciò non toglie che la seconda parte del palato sia astringente e austera, un filo allappante e amara. Noce, rovere, sembra quasi un rum da gourmand, che potrebbe reggere un abbinamento gastronomico. Con acqua si fa più cordiale, pur restando secco. Il finale – lunghissimo – è centrato sul legno, le spezie e il tabacco essiccato. Il più complicato da valutare. Senz’altro il più originale, ma anche il meno equilibrato. Un naso da vertigine, il migliore dei tre. Seguito da un palato rigidissimo nel suo profilo che nulla concede alle morbidezze e che chiede molta abnegazione all’assaggiatore. Bella sfida, non sappiamo se siamo all’altezza: 89/100.


Appleton 1999, 21 yo (2020, OB, 63%) Definirlo un giovincello, quando la stragrande maggioranza dei single pot still non supera i 12 anni, è ridicolo. Eppure la relatività ci dice che questo è il baby della compagnia, anche per quanto riguarda gli esteri (855 g/100). Le narici ci dicono che qui siamo di fronte a un profilo scuro, molto carico: frutta secca tostata, buccia d’arancia, cacao amaro e caffè zuccherato. Anche la melassa si riconosce. Un naso avvolgente, che col tempo prima fa emergere un mix di arancia e menta fresca e poi un filo di fumo crescente. A questo intrigante olfatto fa seguito un palato che segue il dna già intravisto nei due fratelli maggiori, ma con una minore intensità dal punto di vista del legno. Cioccolato fondente fuso sulle pesche al forno, datteri non zuccherini. Il legno c’è anche qui, ma non esagera. Spunta anche del succo d’arancia amara. Il palato più equilibrato e più fruttato. Il finale è saporito, da salivare. Melassa affumicata, chili piccante e un’idea di Old Fashioned. Con acqua si fa più succoso. Se qualcuno inventerà il succo di frutta caramellato vogliamo le royalties. Noi lo avevamo detto, che siamo neofiti. E da bravi neofiti non riusciamo a non premiare la mirabile facilità di beva di questo 21enne. Che unisce una complessità pari a quella degli altri due con una piacevolezza che forse negli altri non si trova. Quant’è bella giovinezza, del voto non v’è certezza ma azzardiamo un 91/100.


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